VIII. 13 ottobre
Francesca Pennini:
Alla prossima chiamata zoom fai partecipare solo i tuoi alluci
Collezione di altra notte insonne, questa piegata dal mal di pancia.
Il mio corpo si ribella e io so che dovrei dargli tregua, rispettare le promesse… Ma non lo sto facendo.
Oggi abbiamo lanciato la playlist collaborativa per Manifesto Cannibale… Mi hanno risposto tutti con grande entusiasmo e dopo poco ci sono già 5 ore di musica.
Inizio ad essere preoccupata per domani.
Sono davvero impreparata ed è la condizione in cui devo essere.
Alla fine il tutto si è orchestrato come uno di quegli incubi tipici (o almeno i miei) in cui stai per andare in scena ma ti rendi conto che non hai preparato niente…
E gli altri… Che si svegliano dopo aver davvero dormito e sono nudi in scena davanti a una platea di sconosciuti? O peggio, sconosciuti con qualche parente in mezzo…
Alla faccia della ricerca del piacere.
Devo raccogliere i pensieri per domani.
Tre anni fa iniziavo una ricerca sul mondo vegetale per la nuova creazione. Era il Gennaio 2019 e venivo da un’estate iperproduttiva in cui avevamo messo in scena in poco più di due settimane di wrestling coreografico “How to destroy your dance”, un lavoro sulla velocità immerso nelle ossessioni e nelle energie dello sport. Lì conoscevamo Teodora, allargavamo la famiglia.
Tutto chiamava lentezza. E così fu.
Il processo stesso di creazione si è dilatato sintonizzando la forma con i contenuti della ricerca. Tra disavventure mistiche del mio stesso corpo e pandemie globali sembrava incombere una strana maledizione di arresto sul progetto che continua a procrastinare il debutto (fino al prossimo Novembre, se gli astri lo vorranno).
La riflessione sull’immobilità che rispondeva all’accelerazione indagata in precedenza era diventata una pratica di immobilità personale e sistemica. E nel passare del tempo continuavano a trasformarsi le pulsioni, le epifanie, le necessità del progetto al punto che la sensazione era diventata quella di stare per partorire un neonato già anziano. Qualcosa di stagionato nel ventre. Un uovo centenario, che da organismo pulsante diventava cristallo.
Il tema delle piante e dell’ecologia è ormai mainstream e sfuma l’urgenza di aggiungersi a ciò che era già detto a più voci. Eppure resta la necessità di un urlo silenzioso. Di sintetizzare la ricerca sul mondo vegetale in un eserciziario di pensiero e di pratiche da ospitare in un teatro che non rappresenta né racconta ma si fa esso stesso, nella sua globalità, paradigma di una complessità ecologica, politica, ontologica di corpi e meteorologie.
Le piante sono espediente per pensare l’Altro in senso più estremo, quel corpo con cui non riesco a identificarmi, che male interpreto, con cui forse non posso empatizzare perché sempre troppo diverso e misterioso. Che il teatro possa farsi portavoce – silenzioso – di questo scaricamento insiemistico, palestra per essere Altro, sentire l’Altro e forse fondamentalmente osservare lo scarto della nostra impossibilità di comprendere, mettere consapevolezza in quel mistero eterno. E se l’empatia si manifesta nei confronti dei propri simili – di chi posso trasformare in specchio – l’esercizio sta forse proprio nell’allargare i bordi di questa sorellanza, arrivare a sentire come sente il sasso o mettere luce nella cecità fondamentale di questa possibilità.
E giocare con la tassonomia sconfinando costantemente, consapevoli che la nostra materia stessa è ibridazione e mescolanza costante con il resto del mondo, con l’Altro (il covid ce l’ha insegnato con grande chiarezza: siamo tutti collegati), continuo cucinare della materia altrui e farsi mangiare, identificarsi con il proprio plotone batterico più che con i tratti somatici del proprio viso. Il senso del cannibalismo totale è proprio qui: la più grande eresia – mangiare il proprio simile – diventa la costante inevitabile. Tutto è un mio simile, quindi siamo tutti cannibali.
Nel modellino geopolitico della sala teatrale la frontiera tra scena e platea, tra spettatore e attore. Lo straniero che per definizione si fa foresta (forestiero) in contemplazione la cui attività silente – o al massimo tossente – è l’azione fondamentale. Varcare, ancora una volta, il confine del boccascena e da quella bocca farsi inghiottire con tutta la potenza genetica di un’idea e di un tocco.
Vorrei un teatro, e quindi un Mondo, in cui lo sguardo non è consumatore ma carburante. In cui la scena alimenta e si alimenta al contempo della preziosa merce dell’attenzione, proprio quella che ora è addestrata alla bulimia del rapido, lampeggiante, subliminale, a quello zapping diventato scrolling.
E forse il ripensare il capitalismo e l’ecologia può declinarsi anche in questo piccolo eserciziario metafisico, un manifesto come manifestazione, apparizione.
Manifestarsi. Letteralmente ciò che è colto con mano, colpito, sorpreso.
E cosa significa sparire, consumarsi nell’atto stesso della performance, nel tempo effimero della scena.
Farsi manifesto. Fare un manifesto.
Farsi fantasma. Fare i conti con la morte.
Cannibalizzare il tempo della propria azione.
Manifesto Cannibale.
—
Concludo con una poesia:
“C’è un’ombra. È una lingua lunghissima, un twister, un apriscatole. Uno svuota tasche. Una coperta d’angora. Sotto le dita dei piedi una scala a chiocciola. Una gocciolina, una gaffe. Parentesi graffa. Le nostre teste arrivano fin qui. Una giraffa, un’antenna, una farfalla, un’ape regina, una fiaccola. Portami in cima. Alla costola. Toccami.
Ora la mappa indica il Nord, sillabami, appendimi per le caviglie. Il tallone entra tutto in un tondo. Attardati.
Non è nostro, non è di pietra questo gradino, un magnete nella mia mano, un pigiama a righe. Attardati. Sarai l’ultimo a salire.
Cammina, cammina che ti cresca un capello solo e dietro l’orecchio. Io che venni con due asole sui fianchi tu che avevi cinque grilli per la testa e una sola tasca, un sasso rotondo e bianco, una piccola ruota coi denti fitti. Ho un cavallo zoppo sotto la guancia, un oblò.
Ho preso la forma, reclino il capo ora mi sposti con un bastoncino, una A bacia un’altra A per formare una scala a pioli, una chiocciola e la sua bava che luccica.
Ad Est c’è una luna grande, ad Est tu hai le mutande con le righe bianche, ad Est c’è una casa di tre piani con al centro una scala. Ad Est ho tre lividi sulle gambe. Lei ad Est usa la bocca e tutto il corpo, ad Est tu mi prendi per mano, ad Est mi riconobbi, ti riconosco. Ad Est ti trovo e ti regalo un sasso rotondo.
Ad est ti troverò, mi troverai.
Ad Est ho le gambe lunghe, c’incamminammo, m’incamminai. Ad Est la luna è di sale e a grossi grani, ad Est ci sono grandi occhi e tante ciglia, ad Est ci sono
OCCHI OCCHI OCCHI OCCHI OCCHI OCCHI
OCCHI OCCHI OCCHI OCCHI OCCHI OCCHI
OCCCHI OCCHI OCCHI OCCHI OCCHI OCCHI
Occhi. Una miriade di occhi che guardano e tu mi tocchi.
Ad Est ci toccammo.
Ti guarderò,
mi guarderai.
C’è una casa con tante stanze, una scala a chiocciola e un labirinto.
Ad Est ti camminerò, mi camminerai.”
Sara Davidovics da OZ, viaggio astratto su quattro punti cardinali e una Coda, 2015
Matilde Buzzoni:
Prima o poi, anche il bosco muoverà i suoi passi.
Oggi credo di aver passato più tempo in auto che in teatro. Credo, non ne sono certa. Oggi è sembrato tutto il giorno le ore 14 di un pomeriggio di metà settimana. E infatti è mercoledì. Solo che ogni volta che entravo e uscivo da un luogo il tempo era passato ma per me la condizione era sempre quella delle 14 post pranzo con il caffè ancora non in circolo. L’abbiocco perenne, ma con l’ansietta.
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Ho desiderato tanto essere immobile oggi, avere il mondo che si avvicina a me e non io che lo rincorro in tangenziale. Ho la sensazione di aver fatto tantissima strada, di aver percorso distanze lunghissime e invece ho solo circumnavigato Bologna tipo 4 volte. Credo di capire ora la differenza tra vivere su un’isola e vivere in continente. Tra vivere in vaso o in un prato sterminato.
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Lasciamo chiuso il capitolo tecnologia di oggi.
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Le persone immobili che ho incontrato oggi: 6 commessi fissi alle loro casse.
Uno molto sereno, a inizio giornata.
Una già stanca e apprensiva.
Una svogliata.
Una offensiva e poco formata.
Uno molto metodico che mostrava la frutta come un mago mostra le carte al pubblico.
Una che appena ha riconosciuto dalla fattura CollettivO CineticO ha iniziato a raccontarmi che aveva visto degli spettacoli, una fan felice. L’ho invitata domani ma sarà immobile nella sua cassa di commessa. Magari sceglierà la musica della danza di domani. Sto sperando che domani balleranno su un suo brano.
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Il mio turno di essere immobile è stato a cena. Mia madre mi ha riversato addosso una giornata intera di chiacchiere mentre io avrei solo voluto mangiare in tranquillità.
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Ora dormo avendo in mente i versi di una canzone di Battiato in cui mi ritrovo spesso quando sono stanca:
Certe notti per dormire mi metto a leggere
E invece avrei bisogno di attimo di silenzio
Certe volte anche con te sai che ti voglio bene
Mi arrabbio inutilmente senza una vera ragione
Sulle strade al mattino troppo traffico mi sfianca
Mi innervosiscono i semafori e gli stop
E la sera torno con malesseri speciali
Non servono tranquillanti o terapie
Ci vuole un’altra vita…
Teodora Grano:
322. Il sole è una stella secondaria. Una stella stanca. Il nostro cielo ha conosciuto altri soli prima di questo.
Bianco.
Tutto.
Bianco.
Davide Finotti:
Kandinsky sul colore nero:
Come un nulla senza possibilità, un nulla morto dopo la morte del sole, come un silenzio eterno senza avvenire, risuona interiormente il nero.
Kandinsky sul colore bianco:
Il bianco ci colpisce come un grande silenzio che ci sembra assoluto. Interiormente lo sentiamo come un non-suono, molto simile alle pause musicali che interrompono brevemente lo sviluppo di una frase o di un tema, senza concluderlo definitivamente.
Questi due colori sono molto presenti nello spettacolo, a tratti preponderanti. È singolare come in entrambi Kandinsky parli di silenzio, di “silenzio eterno senza avvenire” per il nero e di “grande silenzio che ci sembra assoluto” per il bianco. In questi abissi ovattati la musica di Schubert emerge come un faro, una scia di luce o un occhio luminoso pulsante e fremente. C’è Schubert, c’è il Winterreise che si insinua in mezzo a questi due mondi privi di suono ma non li modifica, non li rende sonori, credo anzi che ne faccia risuonare il silenzio, né accresca l’abisso, il vuoto assordante, il pieno rarefatto e privo di sostanza.
Simone Arganini:
Sarò sempre qui per te.
Stasera sono triste. Mi piace quello che stiamo facendo, ma lavoriamo tanto! E stasera mi è arrivata un po’ di tristezza. Ho anche dormito meno del solito. Che per me è gravissimo.
Scherzo.
È grave.
Ho provato a mangiare un pizza da solo nel parco, e poi ad isolarmi con l’ukulele a casa mentre sentivo gli altri ridere tutti insieme dalla cucina, ma stranamente la tristezza non è passata. Questa cosa è un po’ ironica.
Non scherzo.
Domattina non si prova per cui possiamo dormire un po’ di più –> benedizione.
Oggi è venuto mio fratello Adriano per pranzare insieme. È stato bellissimo. A parte che a me fa sempre bene spezzare le situazioni lunghe e stabili con qualche elemento esterno, che mi fa ricordare che esiste una realtà al di fuori. A parte questo, non chiacchieravamo da un po’. Mi ha detto che è un po’ in crisi con Jessica, e che starà in giro per due mesi. Un mese sarà in Togo, Africa, a fare il volontario. Vorrei partire anch’io per un bel viaggio.
Mi piacerebbe provare a fare un flusso di parole.
Straniero dolce uva cuculo cucchiaio uva manico salvia lucertola uovo sfortuna scena scelta fiction incredibile Emma uva passa letto insieme scelta attenzione folto sole solitario sacco sabbia sole silos faccia fortitudine inetto knuckles antipatico alternative anzitutto fare inesperienza oltre urto alopecia antropomorfo figo fagotto fart fiction fare fare fare –> ∞
STOP!
Emma Saba:
MY ECHO, MY SHADOW, AND ME. I talk with my echo, I walk with my shadow. I sleep with you
Oggi mia mamma compie sessant’anni, e come ogni anno, è stata mia sorella a mandarmi un messaggio per ricordarmelo. Due settimane fa, mia mamma mi aveva mandato una mail per dirmi che ci sarebbe rimasta male se mi fossi dimenticata. Infatti mi sono dimenticata. Però non lo sa. O forse l’ha immaginato. Domani viene tutta la mia famiglia a vederci. Non hanno visto niente di ciò che ho fatto negli ultimi anni. E per me è stato anche un po’ un sollievo.
SOGNO:
Mi buttavo giù dal ponte di Casalecchio che attraverso ogni giorno per andare in teatro ed è bellissimo entrare nell’acqua. Come dopo un tuffo al mare.
RISVEGLI:
1. Stamattina. Ero felice, sollevata di non svegliarmi un’altra mattina con il peso del colloquio con TU, Abri e ADC.
2. Risveglio durante Gute Nacht. Mi guardo intorno e sono a metà tra un fiore che cresce al sole e Emma che inizia il suo percorso in Manifesto Cannibale Esercizi di pornografia vegetale.
3. Risveglio dopo il Freeze Fight. Può essere bellissimo o può essere terribile. È il momento più bello e difficile dello spettacolo.
4. Risveglio dopo la pausa pranzo. È un risveglio collettivo. Come in Gute Nacht andiamo tutt_ al Caffè Margherita. Chiacchieriamo un po’ prendendo il caffè e spesso un dolce. Prima di tornare insieme nella grande pancia della balena che è il teatro.
Carmine Parise
L’occhio sbatte due volte per essere sicuro di cosa vede
Io non sono proprio in grado di scrivere un diario.
C’è chi è davvero portat*, c’è a chi piace riscoprire la scrittura grazie a questi compiti.
Io niente, encefalogramma piatto.
Non riesco a mettere insieme due parole di quella che è stata la giornata.
Ripescare esattamente le sensazioni che avevo, farle mie, riportarle… Non lo so… Perché non c’è niente?
Oggi siamo partiti prima a lavorare con la promessa di finire presto. Non ci siamo riusciti.
Ho preparato il riso con il tonno e il sugo. Non speciale, ma neanche male.
Siamo arrivati a teatro ma nessuno aveva le chiavi per entrare, per fortuna è arrivata la signora delle pulizie.
Training tenuto da Tea, mi ricorda di muovere gambe e testa.
Poi prove, lavoro al computer e prove.
No stop oggi, solo qualche secondo tra uno sparo e l’altro.
Il trucco non viene via, anche oggi torno a casa con le guance rosse.
Preparo la polenta con le lenticchie, con Alberto, lui fondamentale mette tutti i tocchi di classe.
Ricevo brutte notizie, purtroppo questo periodo non ne vuole sapere di passare.
Io mi faccio tante domande costantemente, forse è per quello che poi non so cosa scrivere, ho la testa piena di questo brusio.
Provo a dormire.
Buonanotte a tutti.