Image

URUTAU


Join the cannibals

L’Urutau (in italiano il Nittibio) è un uccello sudamericano con una genetica filosofica familiare al Manifesto Cannibale di CollettivO CineticO: è notturno, sta immobile tutto il giorno in posture improbabili, si mimetizza somigliando agli alberi, vede tenendo gli occhi chiusi ed è praticamente tutto bocca.
Per coronare la sua gemellanza viene addirittura chiamato “l’uccello fantasma”.
A lui è dedicata questa performance: un ibrido tra un rito sacrificale e un rave party congelato.
Sono corpi immobili e ciechi che si sfidano in una gara di resistenza.
Sono artistə, persone, esseri viventi che si allenano alla telepatia valicando la soglia tra spazio scenico e spazio contemplativo come in un passaggio di stato della materia e dello sguardo.
Tutto è fermo, eppure si genera un racconto per sottrazione, una narrazione intima e tremante.
È una maratona senza chilometri, una metamorfosi ascetica che dedica il suo eroismo silenzioso ad una tifoseria in apnea.
È ora di restituire eternità agli istanti.

PARTECIPA A urutau

Iscrizioni chiuse

Urutau è una performance partecipata aperta a tutt3, preceduta da un workshop di preparazione il pomeriggio stesso dell'evento tenuto da Francesca Pennini / CollettivO CineticO.
Le iscrizioni sono a numero chiuso e la selezione verrà fatta da CollettivO CineticO sulla base delle domande di iscrizione ricevute tramite la call.

8 e 9 settembre 2023
Artificierie Almagià, Ravenna
Festival Ammutinamenti

19 agosto 2023
Chiesa di San Giovanni, Bassano del Grappa
Festival B.Motion / Operaestate Festival Veneto

ALLUCINAZIONI URUTAU

Le soggettive, i racconti, i mondi interiori di chi è andato in scena nella performance partecipata.

13 settembre 2023 13:18

A cinque giorni da Urutau, Festival Ammutinamenti di Ravenna, i miei pensieri fluttuano ancora nell'aria, in disordine, come i vestiti che piovono dal cielo in una scena di uno dei film di Xavier Dolan,"Laurence Anyways".
Provo a metterne insieme alcuni , ancora immersa nella luce di un'estate che non se ne vuole andare.
 
E' successo tutto in una sequenza temporale piuttosto breve, dalla Silvia spettatrice di "Manifesto Cannibale" al Festival di Santarcangelo, alla Rhododendra in teatro, a Ravenna, con Francesca, Angelo, Carmine ed altri compagni di avventura. 
Un pavimento bianco abbacinante, pulito e lucido, mi attira a sè; io e tutti ci scaldiamo in scena prima del workshop. Ci sediamo in cerchio e ci presentiamo con il nostro nome botanico e qualcosa che vogliamo dire di noi. "Sono Rhododendra e voglio vivere nel presente" mi è uscito di bocca, sorprendendomi un po'. 
Il workshop, un vero regalo. La voce di Francesca scorre come l'acqua di un torrente, fresca e chiara, e ci guida in un susseguirsi di esperienze dalla dimensione umana a quella vegetale, transitando attraverso quella animale e minerale. Il mio corpo è libero, si muove e si immobilizza in modo naturale. Fa caldo, credo di avere sete, ma non sento la necessità di bere, voglio solo essere. lì. Penso che la vita sia generosa con me. 
Mi risveglio da questi pensieri e sensazioni quando sento che dopo 20 minuti ci saremmo ritrovati, pronti e truccati, per andare in scena subito dopo. Sguardi e parole scambiati in camerino sono stati preziosi, un test tecnico ed eravamo in scena, immobili, occhi chiusi. 
Molto gradualmente, movimenti impercettibili al buio, poi sempre più ampi, liberi, dopo aver riconquistato uno dei sensi: la vista. L'udito rimaneva ovattato, protetto dalla playlist in cuffia. Protetto anche dal pubblico, che rimane al di là. La quarta parete diventa fisica. Io ed una ventina di altri "me" nella nostra dimensione. Francesca si unisce a noi in scena e decide, lancia il segnale che scatena l'immobilità e, di nuovo, il buio, ad occhi chiusi. Resto nella posizione, non comoda, in cui mi sono fermata. Una delle poche regole era "non prepararla" e l'ho seguita. 
E' tutto immobile, tranne il mio respiro, ancora troppo veloce rispetto al mio stato attuale. Sono priva di due dei miei sensi, o, meglio, uno dei due è alterato, ovattato. E' iniziato Manifesto Cannibale. Brani musicali si susseguono mentre il mio sudore scorre generoso sul mio corpo. Non importa se mi solletica il viso, vicino al naso. Resisto. Esisto. Alcuni brani mi emozionano e sento un sorriso interiore; altri mi indispongono e non vedo l'ora finiscano, ma io continuo a resistere ed esistere. Le mie radici sono i piedi, il mio contatto con la terra. Non percepisco nulla, neanche i lievi movimenti di aria che i corpi delle persone in scena con me muovono quando i loro corpi chiedono loro di lasciare la scena. Nulla. Buio e musica. Arriva un brano che mi fa pensare che sarebbe un buon momento per riaprire gli occhi e rilasciare la posizione, ma sono curiosa di sentire il successivo. Entrambe le mie braccia sono sollevate, però le percepisco come appoggiate ad un piano. Il pensiero va agli spettatori: lui è fisicamente altrove, ma c'è. Lo sento vicino e (come sempre) mi sostiene. Sono talmente calma che, nonostante onde di sofferenza  giungano di tanto in tanto, non voglio estinguermi. Non ancora.
Arriva però il momento, la decisione è presa: apro gli occhi, cercando presenze in scena. Il campo visivo non ne coglie. Le braccia non vogliono scendere e tutto avviene lentamente, ma riesco a girarmi per esplorare visivamente tutto lo spazio, e scopro di essere sola. Un misto di sgomento per la mia solitudine e di grande emozione. Porto le mani al volto per nascondere qualche lacrima, mi chino per prendere un lembo di lenzuolo e mi strucco. Solo in quel momento tolgo le cuffie e percepisco visivamente il pubblico e le persone che erano in scena con me, insieme a Francesca. Lascio la scena e mi siedo a terra con loro, con la mente libera ed i sensi in tumulto. Dopo, l'afasia, non riesco ad esprimere ciò che sento ed ora, dopo giorni, alcune di quelle sensazioni sono ancora vivissime, altre, forse, in attesa di essere decifrate. 
Concludo con un "grazie" e la memoria di un abbraccio che non dimenticherò.
 
Rhododendra (Silvia)

___________________________________________________________________________________________________________________________

28 agosto 2023 16:58

23 agosto, Torre Conca, Sicilia. Il mare è blu, limpido, pieno di pesci. Ci sono tanti bambini intorno, li trovo buffi, con i loro visi e voci tutte diverse. 

Riposo. È stato un anno particolarmente intenso. Questo è un bel momento per ripensare alle cose belle. 

19 agosto, Bassano del Grappa, Veneto.
Sono felice di essere qui. Visi conosciuti e sconosciuti. Sorrisi che dicono ciao. Gli occhi grandi di Francesca. Gli abbracci di Beatrice e Tiziana. La risata di Isabel. Per certi versi mi ritrovo sempre io, com'ero e ancora sono, sento i pensieri e le mie reazioni; per altri versi sento che non sono più lì, sono diversa e nuova. Ho trovato una nuova calma che mi permette di essere più presente a ciò che c'è. 
Camminiamo, ci pieghiamo, ci guardiamo. Gli sguardi sono unici: chi sorride, chi scappa, chi taglia; mi chiedo come sia il mio. Sono accogliente? Sono impostata? Cosa sto dando? Mi faccio domande e un secondo dopo mi ricordo dei piedi sotto di me, delle spalle e dello sterno che mi orientano e ci orientano tutti, in questo spazio grande e piccolo e bianco e disegnato. Mi ricordo che sopra di me c'è un sacco di spazio. Che bello. 
Le cose qui dentro hanno un buon sapore. Francesca, Angelo, Carmine lavorano intessendo i pensieri, come una palla che rimbalza da una parte all'altra. Simone è sempre lì, lo vedo eh. Dove sono Teodora ed Emma? 
Tengo per me le parole importanti. Non provo a trascriverle perché poi si rovinano, ma io ricordo e so. Sono attraversata da un senso di gioia che non provavo da tempo e mi sento fortunata ad essere qui. Questa è un'esperienza. Sono felice e calma. 
Piccola pausa prima di cominciare. È tutto di corsa ma in realtà sento che il tempo vestirà benissimo quello che ha bisogno di accadere prima, arriveremo pront3.
P'fomans
Cambio al volo posizione del telefono. Spero funzioni, sarà un'esperienza comunque. Troviamo tutt3 un posto nello spazio. Sento il battito al polso (questo me l'ha insegnato il mio fidanzato medico, dice che è il modo migliore per sentire le pulsazioni). Anche se ho gli occhi chiusi non c'è buio. È bello trasformarsi. Penso che siamo in 20 e più a fare questo processo e mi sento parte di qualcosa. Provo un grande piacere nella trasformazione. Non trovo le parole giuste per descriverla ma tocca il corpo e lo spazio e continuo a scoprirne potenzialità e a scoprire me. Quando apro gli occhi completamente e inizio a vedere i miei compagni di viaggio mi chiedo: ci siamo tutt3? Siamo insieme? Sono un po' preoccupata; poi decido che non voglio dare spazio alle preoccupazioni. Ho fiducia. Siamo insieme. È qualcosa di nuovo e diverso. C'è spazio per il corpo. È questa la mia ultima danza prima dell'estinzione? Incontro altri corpi, condividiamo per qualche istante ritmo, gioia, in uno stato di divertimento ed esaltazione, con un pizzico di strizza. Ora vedo in quanti siamo, e siamo tantissim3. Questo essere insieme si allarga e riempie tutta la chiesa. Chissà fino a dove arriva questa energia, passa attraverso i muri, i bicchieri nei tavoli della piazza staranno tremando, come al concerto di Travis Scott. Quanto è silenziosa e letale l'energia? 
Danziamo questo perché è l'unica cosa che ha senso. 
Quando entra Francesca, a piedi scalzi e vestita con un abito nero, mi esalto ancora di più, sta per succedere altro e non vedo l'ora. Non voglio guardare, non voglio essere preparata, non voglio barare. Danzo come se nessuno stesse guardando (semicit.) ma so che stanno guardan...ooooh. ok. L'esplosione è arrivata e rispondo al richiamo. È cosa dolce nonostante il baccano. Non sono persa, mi hanno preparata, non mi hanno lasciata sola. Che ridere questa immobilità che all'inizio mi permette di calmare il respiro. Sento il sudore che scivola, scivola, scivola, non si ferma. Scende dalla fronte e cala sugli occhi, come se fossero lacrime. Continuo a deglutire, perché? È l'emozione? 
Non so se sia una scalata; ho sempre pensato lo fosse. Mi rendo conto, più il tempo passa, che si tratta invece di un'esplorazione. Attraverso tanti luoghi diversi, sono tutti lì, sembra patetico ma sì, sono davvero tutti dentro di me. Scivolo. In quanti luoghi si può andare rimanendo immobili? Mai avrei pensato di poter essere felice nell'immobilità, proprio io che devo muovermi per spiegare, vivere, godere di qualsiasi cosa. 
Mi chiedo se sia giusto, mi chiedo se sto barando, se il mio corpo stia barando, perché io non so come si fa a stare immobili. Che ci sia davvero un solo modo? Ho dei dubbi. Chiedo a me stessa di non andare in quel luogo, in quello del binomio giusto/sbagliato. Vitto, davvero, lascia stare. Con tutti questi posti incredibili che stai conoscendo per la prima volta proprio li vuoi andare, che ci vai sempre? Nah. Respirando sento la resistenza della giacca, la mia cassa toracica vuole riempirla tutta. Cavolo, sono grande. Cavolo, sono grata di vivere questo corpo. Grazie grazie grazie. 
Inizia a tremare sotto di me, le mie gambe sono forti e tremo lo stesso. Respiro e continuo ad assaggiare come il peso è posto, i minuscoli shift che posso fare rimanendo lì. Sono tanti i punti d'appoggio e riesco ad alleggerire una parte, poi l'altra, e via così...
Il tremore si dimentica delle gambe e dopo un po' si sposta alle braccia. Porto il respiro, ascolto, non faccio resistenza. Quando dicono che il corpo ti parla è questa roba qui, credo io. La vibrazione gioca e si sposta, non è immobile, e io trovo estremamente divertente questa cosa. Arriva una canzone che adoro, è la mia. Quante volte l'ho cantata, parlata, sussurrata, dedicata. Quanti luoghi si sono aperti, non me l'aspettavo. Continuano ad aprirsene altri e continuo ad essere meravigliata di questo. 
Come si decide che è abbastanza? Non c'è risposta giusta ma solo la mia e abbraccio questo pensiero. Accadono le cose e credo sia vicino il momento, il corpo dice che forse è arrivato il momento, sento che inizia a muoversi da solo, ecco la risposta, che faccio? La colgo e la accolgo. Gli occhi sono come gusci di conchiglia. Mi do tempo e riemergo. 
Quando mi guardo attorno, trovo sguardi bellissimi. Grazie per essere stati qui, voglio vedervi tutt3! Sul tappeto bianco non siamo in tanti, ma c'è ancora tantissimo. Penso solo: adoro. Pulisco il viso, cerco dove andare. Proprio lì, vado. 
Quando sono seduta, inizio a fare il tifo. Mi accorgo degli sguardi di chi mi vuole bene. Non mi ha persa mai e non mi perde neanche adesso. Ci sono anche Teodora ed Emma, non se ne sono andate. Osservo quello che ancora accade ed è continuamente meraviglia. Faccio il tifo per tutt3 ma in special modo per una persona. Gli arriverà questa energia, ne sono abbastanza sicura. 
Chissà com'è stato per tutte e tutti noi. Ci vedo e siamo come divers3 rispetto a poche ore prima, quando ci siamo incontrat3 per la prima volta. 
È rimasto uno solo e vedo trasformazione continua. (Il tifo è arrivato:)). 
Quello che accade poi non va raccontato. Non ci sono parole per spiegarlo se non cura, gentilezza, il tocco più gentile che potessi immaginare. Non avevo visto questo sguardo prima: quasi mi spaventa, ma so che è al sicuro, e lo sa anche lui. 
Il pavimento è fradicio, la pelle è elettrica, i sorrisi sono ovunque. 
.
.
.
Rigorosamente ALL'OMBRA ho scritto queste cose, la scorsa settimana. È proprio vero che i ricordi scivolano via con una velocità impressionante, o si modificano, evolvono, prendono altre strade...È bello quando si riescono a fissare le cose ancora fresche. 
Ho cercato di trasporre un po' della mia esperienza, tante cose non sono riuscita a dirle, perché davvero non so come dirle. C'è altro che non si può spiegare e forse va bene così.
Ho ripensato spesso nei giorni scorsi all'immobilità e a quello che abbiamo fatto e ho sorriso molto. Soprattutto in queste righe c'è un senso di gratitudine che vorrei farvi arrivare. 
Quest'ultimo anno è volato in una maniera che a tratti non mi so spiegare; mi ha messa molto alla prova e fatto conoscere luoghi che avrei preferito non vedere, non sentire. Per me è ancora più buffo pensare- e per questo sorrido- che l'immobilità l'ho conosciuta moltissimo e ancor di più nelle settimane prima che ci incontrassimo. Ma ci sono tanti tipi di immobilità e scoprirlo è stata una vera gioia. Non c'è solo il cane che ringhia in petto, c'è anche la foresta che cresce nelle caviglie, nel costato, dietro agli occhi. 
Con voi mi sono sentita trovata, non so se abbia un senso in italiano ma in qualche altra lingua sì. 
Nei camerini post performance ho detto: Francesca, grazie, erano anni che volevo fare un'esperienza del genere e ci sono riuscita oggi. 
Perché ne ho provate veramente di tutte, per raggiungere uno stato del genere. Forse l'ho desiderato troppo e non l'ho lasciato accadere? Fino alla settimana scorsa.
In ogni caso, grazie. Sono veramente felice di aver rincontrato ognuna e ognuno di voi! 
Vi abbraccio forte, vi auguro cose bellissime e vi porto nel cuore.

Vitto
___________________________________________________________________________________________________________________________

27 agosto 2023 15:32

URUTAU: ovvero del sopravvivere a se stessi
La prima immagine che ho di CollettivO CineticO è un corpo nudo – un corpo di danza nudo, fatto
di un insieme di corpi umani nudi. Il primo suono è la voce di Francesca, che non sapendo da dove
cominciare per raccontarci lo spettacolo, decide di iniziare dicendoci la verità.
Nudità e verità sono le promesse che mi vengono fatte il venerdì sera, mentre siedo tra il pubblico
di Manifesto Cannibale e sono Cinetica solo in potenza.
Assisto alla performance e ne esco silenziosa, meravigliata, indecisa; come nei migliori dei casi con
più domande che risposte. Mentre torno a casa penso: domani tocca a noi. Ci sarà da divertirsi.
Domani è sabato, che è oggi qualche ora fa, ossia il giorno in cui io e altri umani ci incontriamo per
la prima volta in una chiesa sconsacrata a Bassando del Grappa, dove sotto la guida di Francesca,
Angelo, Carmine e Simone innaffiamo quel nostro seme cinetico.
Le quattro ore di workshop che precedono la restituzione della performance al pubblico sono
l’equivalente esperienziale di una brevissima adolescenza: ciascuna di noi cerca il proprio spazio di
espressione tra l’eccitazione, la timidezza, il desiderio di essere come tutti gli altri e allo stesso
tempo di brillare di un’unicità propria. Ci sono sperimentazione e tensione; ci sono gioco, sudore,
incertezza e concentrazione; ci sono abbandono, ascolto e movimento.
Ci sono danze piccole e danze sperimentali; danze plateali, colorate, e (più spesso) danze acerbe,
senza grandi pretese. Tutte danze che crescono, che si annidano nella terra e poi cercano al cielo;

come germogli, cose vive.

Prima ti Radichi, e poi Sali.
Voli solo quando ti aggrappi.
Ed è questo che siamo stati invitati a fare:
scoprire l’immobilità e il mondo che in essa si spalanca.
Voli solo quando ti aggrappi:
al respiro che da affamato si fa segreto,
al tuo cuore che rallenta fino a scomparire,
alla tua pelle che piange ma non di tristezza,

e bagna la camicia, le labbra, il pavimento.

Quando esci da te stessa smetti di essere sola.
URUTAU è un esercizio di empatia portato alla sua estremità minima: quando apri gli occhi, l’aver
contemplato la soglia dell’immobilità di un tempo verticale dall’interno della tua solitudine ti
catapulta nello spazio dell’altro che ancora sta.

Quando ti togli la maschera ti muti in spettatrice, eppure semplice spettatrice non lo sei più, non lo
sarai mai più.
C’è qualcosa di iniziatico, e per un attimo ti senti a tutti gli effetti una risvegliata; in termini del
tutto poetici e fortunatamente non realistici, condividi qualcosa con i reduci di guerra, i
sopravvissuti, o i testimoni strabiliati di una stessa magia: tutti gli immobili sono tuoi fratelli, e più
li osservi più li ammiri.

They stand still.
They stand, still.
Sono ancora lì.
Sono come stanno, ed è quella capacità di stare a commuoverti.

In un mondo in cui ho l’impressione che il movimento si declini prevalentemente attraverso i
sinonimi più cancerogeni dei concetti di velocità, progresso e crescita, nell’esperienza di URUTAU
ho ritrovato una risposta al bisogno – che è mio, ma che immagino anche di altri – di rallentare il
ritmo della metastasi, di riscoprire la meraviglia di qualcosa che già c’è perché è lì da molto prima
che ci ponessimo il problema di farci caso.
La realtà che trovi quando riapri gli occhi ha una qualità nuova, più nitida. Hai la sensazione che ti
attenda da sempre anche se non la conosci, e per questo nel rientrarci ti senti benvenuta,
bentornata. Dove sei stata?

Questo non lo puoi dire.
Qualcosa lo possono dire i piedi: scuri, ruvidi e pesanti come rocce;
oppure le dita delle mani, quando tornano elettriche con estrema incertezza.
Le giunture, tutte, in cui il sangue torna a scorrere con la qualità di una carezza che solleva polvere
depositata da secoli.
Qualcosa lo può dire la pupilla,
che riceve la luce come l’eco di qualcosa che le pareva di aver visto in un prima lontano, sì, ma non
ne è proprio sicura, non se lo ricorda bene.

Molto lo possono dire le lacrime che velano il primo sguardo,
che non avevo del tutto capito negli occhi di Francesca e Teodora sedute tra noi in teatro venerdì
sera, ma che ho poi riconosciuto nei miei occhi di danzante, e negli occhi appena dischiusi di tutti
coloro con cui, da sabato scorso, ho condiviso e condividerò questa esperienza.
Il risveglio ha la dolcezza di un ritorno.

La sofferenza è uno stato apparente ed esterno, che il pubblico – quasi più di te – deve imparare a
negoziare solamente con sé stesso.

Sabato, io ho aperto gli occhi “presto” – per il concetto di tempo che abbiamo condiviso. Ho aperto
gli occhi quando il mondo fuori non era ancora passato dalla frustrazione alla meraviglia.
Il mondo che mi ha accolta era ancora nello spazio tra la curiosità e la noia, quello in cui la tua
presenza è l’oggetto di un’aspettativa che stai cominciando appena a disilludere, e tu non sei ancora
considerata membro del corpo collettivo che partecipa alla gara mortale capace di trattenere gli
sguardi. Il mondo che mi ha accolta era quello in cui gli occhi sono ancora in attesa, non già in
contemplazione.

Questo lo so a posteriori, perché tra quello stesso pubblico io poi mi sono seduta, e l’ho sentito
cambiare.

Mentre ero dentro, URUTAU mi ha restituito: perdono. Accettazione. Concedersi di essere l’umano
che abbandona la sfida a suo tempo, e proprio per questo ne esce vincitrice. Concedersi di essere
solo ciò che puoi essere, che è ciò che sei ora.
URUTAU mi ha restituito: identità. Mòstrati mentre fai questa cosa assurda, e in questa cosa
assurda tu stai, cresci, e sei forte. Ne esci e sei fortissima.
È una pratica-portale, URUTAU.
Mi ha restituito: una possibile chiave. Per una dimensione spaziotemporale che si apre solo
attraverso l’esperienza del corpo. (non scontato, data la pornografia della virtualità in cui siamo
immersi).
Siamo così abituati a dimenticarci del corpo, ormai, a ritrovarlo solo quando soffre, a scordarci che
senza di esso non esisterebbe l’esperienza prima del mondo, che è un peccato. Nel senso che dà
dispiacere pensarci, a tutte le volte in cui diamo per scontata la gioia del corpo presente.
URUTAU ti restituisce una declinazione della pratica meditativa in cui esplorare un tuo limite, ogni
volta da un punto diverso; un limite attraverso cui riconoscerti, da celebrare o superare, da
condividere pubblicamente pur tenendolo per te.

Essere stata corpo testimone di questo percorso mi ha fatto fare esperienza di una nuova forma di
nudità, senza dovermi slacciare nemmeno un bottone.

La connessione con il resto del gruppo, per me che sono una persona ad alta sensibilità, è stata
fortissima fin dalle ore di workshop. Le intenzioni di tutte e di tutti erano così dedicate e autentiche
che, anche durante le prove, mi sentivo quasi sopraffatta dall’emozione. L’energia era densa,
straordinariamente umana nel nostro tentare di essere meno umani possibili, nel ritorno allo stato
dell’essere che si esprime nel silenzio.

Questo è qualcosa a che mi tocca profondamente per ragioni personali, perché ciò che chiamo “lo
stato dell’essere che si esprime nel silenzio”, attraverso il tentativo umano all’immobilità, scopre e
svela un senso di trasparenza e rifiuto alla protezione di sé che sublima in una manifestazione di
forza stra-ordinaria, tale da scardinare l’esterno e sorprendere chi guarda.

“Ci vuole coraggio a fare una cosa così”, mi ha detto poi qualcuno.

E in effetti sì, ci vuole coraggio – che significa “avere cuore” (cor-habeo): ci vuole cuore per essere
nient’altro che te stessa, cieca, davanti a un mondo che ti guarda, e poi tornare restituire lo
sguardo.

Quando ho sollevato il capo dopo l’ultimo inchino, all’applauso del pubblico, ero stata abitata da
così tante presenze e avevo accolto l’energia di così tante persone – assieme a cui avevo appena
vissuto un’esperienza trasformativa – che mi mancavano le parole. Questo tende ad essere un mio
modo di rispondere al sovraccarico, in ogni sua manifestazione nello spettro compreso tra la
disperazione e il sublime. Di fronte a una forte emozione la soglia del mio dire si chiude, non ci
sono più le parole; sto in silenzio e piango. Letteralmente, esondo.
Io che cerco ancora e da sempre uno spazio di mondo in cui la mia trasparenza non sia fraintesa
per sola fragilità, ma scoperta come diamante (da me per prima, che ancora non mi sento proprio
solida) ho attraversato URUTAU come smarrita. È stato come trovare l’acqua dopo anni di deserto.
(Ci è voluto un gin tonic prima di ricominciare a parlare), e ci è voluto ricordarsi cosa significa
avere una faccia, delle labbra e una gola prima di riuscire a contemplare l’acqua, la sua possibilità, e
il desiderio che avevo quasi dimenticato nella lunghezza del viaggio, di potere un giorno bere.
Ci è voluto il tempo di commuoversi, prima di riuscire di nuovo a muoversi.
Credo che il senso di riaprire gli occhi alla realtà dopo Manifesto Cannibale / URUTAU sia stato
questo, forse non solo per me: trovare la forza di muoversi dopo, grazie, nonostante la, e dinnanzi
alla commozione.
Sperando di riuscire a restituire un po’ del mio senso, così mi racconto a voi.
Grazie per avere atteso alle promesse di nudità e verità che mi avete fatto in scena.
Ogni occasione di lavorare nuovamente con voi sarebbe e sarà per me un piacere e un onore.
E.

___________________________________________________________________________________________________________________________
27 agosto 2023 14:54

Allucinazioni a distanza di giorni, sarebbe stato meglio scrivere prima? Probabilmente sì, ma da quando ho riaperto gli occhi il mondo ha ripreso a girare velocissimo. Gli appunti sono tre. Il primo riguarda uno degli esercizi svolti nel pomeriggio, per prepararci allo spettacolo. Ci avete chiesto di improvvisare una microdanza ad occhi chiusi, speravo che non proprio tutti tutti ma davvero tutti avessimo dovuto prestarci, invece era proprio tutti tutti ma davvero tutti, insomma dovevo farlo anche io. Non sono abituata a questo tipo di attività è già partecipare per me è stata un'esperienza davvero fuori dall'abitudine, quella richiesta mi ha agitato ma il momento più felice dell'intera giornata lo faccio cadere lì. Quando mi arrendo all'inevitabile, microdanzo non so cosa e non so come, e quando apro gli occhi siete in tanti, distesi, a guardarmi e a sorridermi, conosciuti e sconosciuti. E' stato commovente e davvero bello, mi sono sentita nel posto giusto. Il secondo appunto non può che andare alle cuffie che mi hanno abbandonato appena cominciata la performance, penso di aver sognato un anno fa qualcosa del genere ma il ricordo è vago. A proposito di fermare il tempo, a proposito di alterità. Ero fuori dal tempo del pubblico, ero fuori dal tempo della performance, il tempo non si scandiva in nulla, passava e basta al buio e sapevo che attorno a me succedevano cose, avevo sentito il pubblico sedersi e conoscendo l'iter della performance sapevo che a un certo punto le persone che avevo attorno avrebbero cominciato a muoversi. Ma il mio tempo non era il loro, il mio tempo era chiuso e inesplicabile, incomprensibile. Stavo ferma e sudavo, dopo un po' - e ovviamente non ho idea di quanto sia durato questo po' - mi sono arresa. Sono altro, e in quanto altro mi evolvo a modo mio, cresco a modo mio, cambio lentamente a modo mio. Il terzo appunto riguarda la gara di immobilità, che ho affrontato tutto sommato con tranquillità, la sfida vera era già sorpassata, era stata restare fuori dal tempo, al buio, completamente scollegata da chiunque, perfettamente sola. Nell'immobilità collettiva potevo anche rilassarmi. Non ero troppo scomoda ma nemmeno troppo comoda, soprattutto avevo una spalla girata male che col passare dei minuti sentivo contrarsi e la immaginavo come il nodo di una corteccia, che si inspessisce e costruisce sempre di più, a sostenere il ramo stortarello del braccio. Grazie a tutto il Collettivo per il lavoro che fate e per il lavoro in cui ho avuto occasione di entrare. Col senno di poi ciò che lì per lì è stato più difficile da vivere, essere in scena scollegata dal mondo, è stato ciò che di più significativo porto a casa.
Licia

___________________________________________________________________________________________________________________________

22 agosto 2023 10:55

È valicare il confine di un luogo sconosciuto, percorrere un viaggio millenario collettivo e intimo, presente nell’assenza, sospeso ma radicato. Cosa siamo?

Sento il tremore, mi irrigidisco, la mia mandibola è serrata.

Non dobbiamo proteggerci, quante volte lo faccio? Qual è la mia paura più grande e da cosa mi voglio proteggere?

Lascia. Perditi. Sei altro.

Respiro il dolore e lascio scorrere le gocce di sudore, le sento infilarsi sotto il costume di velluto e svanisco lentamente.

Questa stanza non ha più pareti, arriva un soffio di vento, lascio cadere pezzi di me sul terreno mentre le mie radici bruciano.

Sento piccoli rami intrecciarsi l’uno con l’altro in un tempo profondo.

Ascolto il frastuono dell’immobilità che è musica vitale: tun, tun, tun, ssss, sss e arrivano immagini acquatiche mentre mi sento evaporare.

Resisto. Esisto. Brucio. Ancora. Ancora. Ancora.

Ho oltrepassato il confine

Poi un vortice mi fa riemergere dall’abisso e con i rami ancora intrecciati si compie la metamorfosi.

Quando rivedo quel ritorno, sento risalire la linfa che mi nutre. 
Giulia

___________________________________________________________________________________________________________________________

21 agosto 2023 21:34

Ecco qualche appunto post esperienza performance/immobilità.
Sono capace di grande determinazione, ma perché accada ho bisogno di dare alla mia mente un compito (UNO) chiarissimo. nel mio caso: "non mi muoverò finché non arriva Francesca a chiamarmi".
Il collo mi ha fatto male dal minuto 1 dell'immobilità (la posizione non era estrema, forse per un vecchio incidente?), il dolore ha reso l'esperienza un viaggio a onde: alternarsi di speranza e disperazione. Restare nello spazio dove non si risponde agli stimoli della mente è indescrivibile a parole.
Ho iniziato a detestare la musica dopo circa mmmm mezz'ora? La mente aveva voglia di dare colpa alle canzoni per il dolore del corpo.
Ad un certo punto ho avuto la sensazione che il pavimento si muovesse, probabilmente un leggero giramento di testa che è passato in fretta. Avevo la sensazione che il pavimento fosse una piattaforma che perdeva orizzontalità. Non sapevo più se ero verticale o diagonale.
In alcuni momenti verso la fine ho perso i confini del mio corpo - o magari ho trovato quelli veri. Vale a dire che (anche se razionalmente ricordavo in quale posizione fossi) , la mia postura si modificava con il cambiare delle sensazioni e dei dolori del corpo, per un fattore percettivo e non più visivo. Mi abbandonavo allora a questa idea che per fossi accovacciato a terra mentre in realtà ero verticale.
Emmanuele
___________________________________________________________________________________________________________________________

21 agosto 2023 19:31

Care tutte e tutti, cara Francesca,
grazie per questa meravigliosa esperienza.

Sono sul treno, in viaggio, e come è stato consigliato provo a scrivere i miei pensieri a caldo.
Ho amato le mille qualità che ha l'immobilità, la vibrazione che accompagna il continuo riassestarsi, il peso che cola fino a incendiare la pianta del piede. Mi sono congelata e pensavo a contare i secondi, a riaprire gli occhi, a respirare nelle clavicole e nei gomiti o ovunque sentissi scottare.
Mi sono ricordata com'è non pensare a niente.
Riuscivo a percepire -forse- gli spostamenti attorno alla mia pelle: l'aria diventava più fredda.
Ero curiosa e nostalgica dello sguardo: mi sarebbe piaciuto incontrare di nuovo gli occhi del pubblico, delle mie compagne, umidificare i miei, osservare da mille angolazioni chi provava a resistere.

Grazie per questa esperienza, per il workshop e per la performance, per l'immersione in questo immaginario apocalittico, vivo, esteso, sottile. Un rave party di vibrazioni microscopiche. Avrei voluto durasse di più! Cara Francesca, spero di avere altre occasioni per studiare e ascoltarti!

Grazie di tutto, davvero
Beatrice

___________________________________________________________________________________________________________________________

21 agosto 2023 8:22

Carissimi* tutt*,
Seguo la scia dell'invito di Francesca e rispondo di getto alla mail, cercando di recuperare le impressioni sul workshop e sulla performance.
Ho pensato sin da subito che questa dovesse essere un'esperienza da inserire nel curriculum di tutt* (da* giovanissim* a* più anzian*, di tutte le estrazioni sociali e di tutte le condizioni fisiche): dovrebbe essere una specie di passaggio obbligatorio nella formazione di una persona, un rituale necessario, soprattutto nel tipo di società in cui viviamo che non prepara minimamente - anzi contrasta fortemente - l'essere umano a incontrare qualsiasi ragionamento o esperienza centrate sul concetto di tempo. L'ho trovato un modo (o perlomeno un tentativo) per riconnettermi. Naturalmente il presupposto fondamentale, e rubo le stesse parole di Francesca per esprimerlo, è considerare la danza uno strumento ... E quale miglior arnese che gioca continuamente sul momentum può aiutarci ad accedere alla dimensione temporale, la quale ci caratterizza tutt*, senza davvero distinzioni, se non la danza?
Aggiungo che personalmente sia il workshop sia la performance (ma di più la seconda) sono stati un modo per incontrare la danza sotto un altro aspetto, conoscerla da un punto di vista nuovo, fare anche pace o stringere un patto diverso con lei. Per chi come me si limita ad assaggiare le briciole di un mondo costruito negli ultimi due secoli da ballerini, coreografi e addetti ai lavori, "Urutau" è stato un viatico fantastico, un enzima che ha attivato connessioni difficili da attuare in un arco di vita breve come quello umano.
Infine, una considerazione che sicuramente è già stata detta molte volte: assistere allo spettacolo la sera prima e partecipare alla performance il giorno dopo sono due momenti dello stesso capitolo, dialogano tra loro e si condizionano a vicenda. Faccio fatica a staccare le due fasi, da spettatrice e da ballerina. Ho trovato, nello specifico, lo spazio scenico della chiesa più adatto, ma non toglierei mai "Manifesto Cannibale" dai teatri, è troppo importante che ci resti, anche - penso - per motivi politici.
Grazie ancora per l'occasione, beat* quell* che vi incontreranno e collaboreranno con voi!
Grazie anche della gentilezza, dell'organizzazione, del cibo, dell'acqua, dello spazio e del tempo.
Grazie della generosa fiducia di Francesca e dell'apertura, anche se si dovrebbe coniare per lei forse un termine nuovo come "spalancatura" per rendere di più l'idea. È davvero (DAVVERO) raro essere guidat* e poi lasciat* andare così con slancio: è stato un momento di crescita estremamente denso.

Claudia