Francesca Pennini
[02:29, 14/11/2021] Francesca Pennini:
MANGIARSI LA PLACENTA
Postumi da debutto
Il mio orologio appeso al muro si è fermato poco prima di partire.
“Si è scaricata la pila”
“Considera che potrebbe anche non ripartire più” mi dice Mattia, in un nichilismo senza motivo apparente.
“Già. Magari è rotto. Non vale molto ma mi piace perché la lancetta dei secondi ha un movimento continuo.”
Indiscreto. Un tempo senza discrezione, senza pause tra gli attimi.
Sembra molto più veloce rispetto all’andamento stroboscopico delle normali lancette.
Sono partita per Roma con la febbre.
Mattia mi ha chiesto di venire a salutarmi e si è presentato davanti a casa mia con la valigia e la voglia di accompagnarmi.
È stato bello. È stato terribilmente difficile. Tutto.
In macchina avevo paura di aver sbagliato, che si sarebbero generati problemi. Parla la parte di me che teme di impattare sul mondo, di creare danni, di essere “quella problematica”.
Mi sono risposta che non volevo vivere in quelle paure. Ho fatto bene.
Questo debutto è stata una catarsi.
Il parto di una gravidanza durata tre anni.
Ogni gestazione è anche una metamorfosi.
E ogni trasformazione implica un non riconoscersi più per un po’.
Forse dovremmo imparare a disconoscerci tanto costantemente da non poterci mai tradire.
Mia madre mi ha detto che lei se lo sentiva che sarebbe andato bene, e lo sentiva nello stesso modo semplice ed evidente che le aveva annunciato come sarebbe stata l’intensità della mia vita.
Così è stato.
Sono andata in scena stando nel gusto della difficoltà, nel coraggio delle verità piccole, cercando di ascoltare come la realtà mutava e chiedeva mutazione… costantemente.
Ho salutato le amiche e gli amici nel foyer. Alcun3 mi facevano solo un cenno in rispettoso imbarazzo, perché è proibito chiacchierare con gli artisti prima degli spettacoli. Invece io volevo esserci, parlare, decentrarmi verso un fuori. Non sei mai stata così estroflessa, mi ha detto Marco. Ci ripenso spesso.
È venuta Giusy da Palermo e voleva lasciarmi due cannoli. Questo è quello che intendevo.
Vado a fare una pipì simbolica con l’aiuto di Matilde che mi tiene il microfono già allestito sotto al vestito.
La sala è piena. Mi danno l’ok per iniziare.
Mi siedo in proscenio, nella parte nera fuori dal rettangolo bianco che segna la scena.
Dietro di me i corpi nudi di CollettivO CineticO dormono.
Mi tolgo le scarpe e la mascherina le infilo nella borsa, come chi non ha intenzione di andarsene per un po’.
Guardo le persone: c’è chi fotografa, chi mi guarda perpless3 o mi sorride, chi legge il programma di sala con le sopracciglia vicine.
Inizio. Senza sapere come fare. Racconto tutto il necessario come mi viene, dimenticando qualche pezzo.
Spiego come far iniziare lo spettacolo alle spettatrici e agli spettatori e mi nascondo sotto al lenzuolo da fantasma che copre la mia sedia. Sotto di me: una borraccia, un fazzoletto di carta, un vecchio flash fotografico, il mio telefono cellulare, una cassa bluetooth.
Ascolto.
Alla seconda replica non c’è il dibattito della prima su chi sveglierà Davide.
È stato un bambino, mi hanno detto.
Sento cambiare il panorama acustico della sala. Sento Davide che cammina. Mi chiedo a cosa rispondano le risate degli spettatori, o le tossi imbarazzate.
Sento russare Simone. Sento il suono del frigorifero che abbiamo registrato durante la residenza al Teatro Laura Betti.
Ad un certo punto tiro fuori il braccio dal lenzuolo e congelo la scena con il flash. Non prevedo quando sarà il momento esatto… La sensazione è quella di una tensione che si carica continuando a chiedersi se è ora o meno… ma quando è davvero “ora” non è mai in risposta ad una domanda.
È sempre un’evidenza. L’adesso appare.
Danzo con loro immobili, mordo le dita di Teodora, le appoggio una pianta sulla schiena, chiamo Alberto per portare Simone nei camerini, scoperchio una quinta, raccolgo il sudore di Carmine, discuto sull’arrivo di altri spettatori nel foyer…
Il pubblico interagisce, ride, talvolta applaude a scena aperta.
E poi arriva l’ultima scena. Mi siedo sul bordo del palco e li guardo.
Li guardo guardare.
Eccomi, unica spettatrice di una performance sublime: i visi del pubblico sono illuminati dal fondale che reagisce lampeggiando al suono dei tacchi in scena.
Anche loro sono immagini immobili. Sono cartoline degli spettatori.
C’è chi strizza gli occhi, chi si protegge dalla luce cercando di coordinare la ritmica dei passi in scena con un’otturatore improvvisato con il programma di sala, chi sorride ad occhi chiusi.
Stanno soffrendo per guardare.
Provo amore per quell’umanità abbagliata. E gratitudine per quelle pupille che si spalancano e restringono ad ogni variazione luminosa, masticandoci.
Impegnati ad inghiottire con i fori dei propri occhi, a farsi penetrare nei pensieri e nel cuore. Questo cannibalismo dei sensi mi sembra un atto di fiducia così grande e pericoloso.
Li guardo e sono grata ai loro corpi qui. Al loro tempo. Tre ore di vita, assieme.
Finalmente tre ore spese bene, mi ha detto Alessandro a fine spettacolo.
Fine. Applausi che non dovrebbero esserci.
Pausa. Scena di pausa: il vomitorium
C’è chi esce e chi guarda gli altri.
12 minuti. 12 come i 12 esercizi che abbiamo fatto, come i primi 12 lieder di Schubert (prima che scrivesse gli altri 12). Come le ore del giorno.
Attraverso il palco e mi cambio. Concitazione con le altre e gli altri. Momento di strana umanità fuori scena. Sospetto che dovrebbe essere pensato meglio, anche questo. Forse non dovremmo parlare…?
Rientro, penombra in scena e luce in sala.
Mi metto le cuffie e mi ribalto: prima sentivo tutto e non vedevo niente.
Ora vedo tutto e sento solo la mia musica.
Una strana introversione ma con amplificazione di energia.
Sorrido al pensiero dell’ignoranza rispetto ai propri suoni, ai tonfi dei salti di Carmine ed Emma, al fiatone che sentono solo gli altri… La luce in platea scende e si versa sul palcoscenico. Poi, la risacca, dal palco torna in platea. Dalla platea, di nuovo, alla scena. Una mungitura.
Le onde si fanno sempre più fitte e resta solo la scena a lampeggiare stroboscopica e irregolare.
Quel buio che prima espiravano dopo ogni esercizio ora sono attimi. Kapalabhati. La lancetta dei secondi discreta. Corpi che si muovono e appaiono fermi. Lo spazio è tutto lisergico. Il nervo ottico dice allo stomaco di vomitare.
E infine “PUM!”.
Mina esplode. La luce si ferma. Ci immobilizziamo tutt3 ad occhi chiusi, nel frame della danza che ha scelto il caso, il tempo, il dito della pistola finta di Davide.
Entrambe le sere senza prevederlo, senza nessuna lucidità nel fermarsi.
Inizia così la gara di immobilità. Si rimane ferm3 il più a lungo possibile. Chi cede lascia la scena.
Chissà dove sono gli altri, non ho visto se avevo qualcuno davanti, vicino. Non mi è chiaro nemmeno come sono orientata sul palco. L’assenza della pendenza dei palchi all’italiana non mi sta dando riferimenti sul fronte.
Le braccia alzate. Le spalle che subito temono e tremano. Il respiro che piano rallenta. La bocca aperta. L’impossibile gestione della saliva, la chiusura della gola per evitare che si secchi.
Respirare solo con il naso, pianissimo. Immaginare il percorso dell’aria nel corpo. Anche dove non passa davvero.
Spostare il peso di un grammo in un quarto d’ora. Allungarsi di un millimetro in dieci minuti.
Questo è l’impegno della pianta.
Muovo le viscere. Sono la mia danza segreta. Sollevo il pavimento pelvico, risucchio l’ombelico, alzo e abbasso il diaframma, la glottide. Muovo appena la pelle, immagino la schiena dei gatti o dei cani quando rabbrividiscono. Sposto la mia pelle d’oca da un lato all’altro come se fosse una macchia linguistica sulla seppia.
Una danza microscopica, una coreografia di brividi. Pura vibrazione. In questa immobilità il pulsare e la verticalità sono le uniche differenze tra la vita e la morte.
Arriva il dolore. Non cresce, è un ciclo. Arriva e va, assieme all’attenzione.
Penso di dover lasciare. Resto ancora. Ogni volta che lo penso resto ancora.
Un braccio sta sollevato senza alcuno sforzo. Non lo sto facendo io. E’ come se fosse appeso al cielo.
Sono appesa al cielo. Lo penso e lo sento. Sospetto di potermi sollevare, tutta intera. Un briciolo di fede in più e lo faccio davvero.
Sento lo sguardo degli spettatori che mi sostiene i gomiti, la schiena.
Un pezzo di pelle del piede è rimasta schiacciata sotto alla pianta.
Percepisco degli applausi.
Il pubblico sta applaudendo a chi abbandona l’agone.
Sento che siamo in un’arena. Sento che è qualcosa di antico.
Nell’antichità gli applausi servivano a coprire le grida dei sacrificati.
Noi indossiamo cuffie insonorizzanti e lunghi silenzi, indossiamo grida immobili.
Non sono valutazioni ma partecipazioni di commozione e fervore a un rito collettivo.
Un sacrificio volontario alla verità, alla condivisione.
Grazie al suono degli applausi conto le uscite ma non sono sicura… Sospetto di essere rimast3 in due.
Non voglio uscire per ultima. Sono stata quella diversa per abbastanza tempo.
Voglio resistere ma non vincere.
Apro gli occhi.
È come venire al mondo. Di nuovo. Diversa.
Il corpo non si muove. Cede appena. Devo accompagnare giù il braccio alzato aiutandolo con l’altro.
È impossibile farlo più velocemente di così. La consistenza della carne è legno.
Non si tratta di muoversi, si tratta di trasformarsi.
Mi guardo attorno, c’è Teodora. Entrambe le repliche siamo rimaste io e lei. Mia sosia e sorella. Mio corpo, mia amica.
Mi guardo i piedi. Sono viola. Li guardo muoversi ed è come imparare a camminare.
Guardo la platea. Stanno applaudendo.
Mi tolgo le cuffie. Il suono del mondo mi avvolge come una coperta calda dopo il lago ghiacciato.
Piango solo con gli occhi.
Sfilo il fazzoletto appuntato sul petto come un garofano bianco e mi strucco.
Mi strucco pulendomi con le lacrime.
Vedo le orme bianche di chi se ne è andato prima di me. Non capisco cosa sono. Non ricordo che è la farina esplosa con la bomba dell’immobilità.
Vedo le macchie bianche sulle mie gambe e non le riconosco.
Attraverso la sala piangendo e incontro occhi sconosciuti che piangono. Altro trucco che cola nelle mascherine.
Urlano e mi chiamano per nome. Non vedo Emma e gli altri seduti tra il pubblico, si sono mimetizzati3 perfettamente.
Mi siedo e piange anche il corpo, e ride la bocca. Guardo Teodora e la amo.
Faccio il tifo. Alcuni spettatori mi parlano, mi sorridono… qualcuno viene ad appoggiarmi una mano sulla spalla. Parlano, cercano le musiche della playlist che hanno composto con il telefono, la commentano. È come un grande dj set immobile.
Teodora inizia a muoversi, pianissimo.
Sono rimast3 45 minuti a guardare persone completamente immobili.
Che strano vederla trasformare.
Un’altra metamorfosi.
Non ha la solita faccia. È bambina e vecchia assieme.
La lascio arrivare in mezzo alla sala, mi alzo e la raggiungo. La abbraccio.
Compaiono anche gli altri che si alzano in piedi dalla platea. Come funghi.
Andiamo in scena.
I suoni con cui gli spettatori prima accendevano la luce in scena ora sono diventati boati.
C’è chi restituisce la luce oscillando la torcia del telefono.
Tutto mi appare come una celebrazione dell’esserci.
Non abbiamo fatto uno spettacolo. È successo un pezzo di vita, un fenomeno strano.
Fuori dalle quinte mescoliamo i corpi madidi negli abbracci.
Lì fuori, non più nella soglia del fronte, non più nella bocca del boccascena.
Lì dietro in quel buio del ventre ci diciamo cose che restano nelle viscere.
Urlo di gratitudine e di amore.
Ora a casa. Resta l’insonnia.
Rimetto le pile nell’orologio.
Parte.
11:21 dell’12-11-2021